PARTE PRIMA
14
L’inizio.
Amy
Salire di
più è impossibile. Da qui non si vede che nebbia.
Il
condominio dove abito è una costruzione quadrata grigio spento. Le mutande e le
tute da lavoro stese sui davanzali sono le uniche macchie di colore alle
pareti.
Nessuno può
salire in alto, agli affittuari è proibito dal Regolamento.
So di
disobbedire e non m’interessa.
La
superficie orizzontale del tetto è nero pece, quando scendo le scale lascio
delle tracce che nessuno cancella.
L’uomo che
abita al quinto piano, qualche tempo fa, ha seguito le impronte e ha scoperto
il mio nascondiglio. Ricordo
molto bene le sue parole.
“Piccola,
non sai che i bambini sono leggeri come piume al vento? Vuoi provare a volare
giù?” mi sono venuti i brividi per la paura e sono scappata a razzo. Ora sono
molto più attenta, nessuno mi segue, da anni questo posto è solo mio.
La prima
volta quassù è un ricordo quasi svanito nel tempo.
Eravamo
appena arrivati dal paese di montagna, tutta questa pianura mi sembrava strana.
Mancava l’altezza, il senso del guardare le cose dall’alto, così iniziai a
salire le scale dall’appartamento al terzo piano, fino in cima alla vetta.
Ogni giorno
mi spingevo un piano più in alto. Quarto, tappetini rossi e blu, quinto, suono
di radio a tutto volume, sesto, felci e gerani avvolti dal cellophane, settimo,
cinguettio di uccellini e alla fine, l’ultima porta.
Una piccola
spinta e mi sono trovata sul tetto, da quel momento ho iniziato a barrare i
giorni. Per il conteggio, mi aiutano i calendari, conservati dentro un bidone
di plastica.
Anche oggi
ho messo una croce, sei gennaio. Ancora un giorno cancellato verso la fuga.
Mancano sei mesi alla fine della
scuola media, poi me ne vado via.
Le voci che
provengono dal basso distraggono i miei pensieri. Sono curiosa e mi sporgo a
guardare.
Mia madre è
in cortile. Chiacchiera con Pino, una sottospecie di abitante del condominio.
Da qui non riesco a distinguere chi dei due è messo peggio. Si sorreggono a
vicenda e gridano verso un’auto parcheggiata lì vicino. La scena che vedo mi fa
vergognare. Dall’auto scendono due persone, un ragazzo che avrà più o meno la
mia età e un uomo molto grasso.
Aprono il
bagagliaio e iniziano a tirare fuori una serie di scatole. Mia madre si
avvicina a loro sempre di più. Parto da centometrista, devo assolutamente
evitare che la sua bocca ci metta ancora una volta nei guai.
Mentre
scendo le scale, conto i secondi che mi separano da mia madre e dalle sue
parole.
Quando
arrivo, capisco che è troppo tardi, lei canta a tutto volume una canzone di
Morandi cercando di attirare l’attenzione dei nuovi arrivati.
L’uomo e il
ragazzo le passano accanto facendo finta di niente.
«Dai mamma,
andiamo su», dicendo questa frase cerco allo stesso tempo di afferrarla per un
braccio, ma lei testarda mi spinge con la mano. Peserà cinquanta chili scarsi e
ha la forza di un toro.
«Faccio da
sola, cosa credi non sono mica un’invalida!» mi urla.
«No, lo so
che non sei un’invalida ma fa freddo e tu hai addosso solo la vestaglia.»
«Oggi è
festa ed io festeggio», non riesco a prenderla, è più veloce di me a uscire dal
cortile e attraversare la strada. Si mette a correre verso il bar, le ciabatte
non la sorregono, alla prima lastra di ghiaccio scivola e cade.
Mentre la
raggiungo prego che non si sia fatta niente, cosa dico a papà quando torna?
Guardare la mamma quando lui non è presente è compito mio.
Quando le
sono vicina, mi rendo conto che è andata male, sanguina dalla testa, tanto.
«Mamma,
mamma, resta lì, non ti muovere.»
Lei non mi
risponde e prova ad alzarsi. Non so cosa fare. Mi guardo attorno, il
marciapiede è deserto. Il bar è chiuso per turno. Nessuno in strada e nemmeno
in cortile. Lo sapevo, nelle situazioni critiche tutti i miei vicini si
volatilizzano.
«Aiuto.»
Grido. Non succede nulla. Riprovo più forte: «Aiuto!»
Vedo i due
nuovi arrivati che si dirigono verso di noi, ringrazio mentalmente il destino
che siano arrivati proprio oggi. L’unica persona del condominio che ha sempre
dimostrato un po’ di cuore è la signora Carla del settimo piano, ma è in
vacanza dalla sorella.
Mentre si avvicinano, cerco di far star seduta
mia madre e strappo un pezzo della vestaglia per fermare il sangue che le cola
davanti al viso.
«Bisogna
portarla all’ospedale, è vicino», mormora il ragazzo. «Forse è meglio chiamare
l’ambulanza», dice l’uomo.
«Voglio
andare a casa non all’ospedale», risponde con cattiveria mia madre per niente
spaventata, sembra ignorare che tutto il sangue che c’è in giro sia il suo.
«Mamma hai
un taglio in testa, forse servono dei punti», provo a convincerla. Cerco di
farla sedere sul marciapiede sorreggendola, mi chiedo se sono in grado di
medicarla da sola.
Dopo qualche
istante sentiamo un suono di sirena che si avvicina. Qualcuno dalle finestre
deve aver visto la scena e ha provato pietà, un miracolo.
Mi rendo
conto di poter respirare. Fino a questo momento sono stata come sott’acqua.
Il medico e
l’infermiera dell’ambulanza valutano la situazione in pochi minuti, rispondono
con dei monosillabi alle proteste di mia madre, la caricano sulla lettiga e la
portano via, senza una mia parola. Del resto non ho aperto bocca quando hanno
chiesto: “C’è un parente tra di voi?”
Nessuno dei
quattro ha detto niente, né i due estranei che mi hanno sentito dire mamma più
volte, né la figlia ufficiale, né la madre troppo impegnata a dire frasi senza
senso.
Ho pensato
tutto il tempo, “se la prendessero per sempre”.
Mentre
l’ambulanza se ne va, rimaniamo noi tre.
«Coraggio,
tua mamma non ha niente di grave, si riprenderà presto», dice l’uomo grasso per
consolarmi e mi propone qualcosa di inaspettato: «Vieni a bere qualcosa di
caldo da noi, dai Giorgio dille di salire.»
Giorgio mi
guarda senza dire una parola. Mi accorgo che i miei jeans e il maglione sono
sporchi.
«La
ringrazio, ma devo cambiarmi» la mia educazione è automatica.
«Allora
cambiati e vieni dopo, noi siamo all’interno dodici, siamo nuovi qui, ci fa
piacere avere compagnia, cosa dici Giorgio?»
Niente da
fare, il ragazzo resta muto come un pesce, deve essere suo figlio, sembra che
se ne freghi alla grande di me e dei miei casini.
«Io abito all’interno
undici, salgo con voi, sono la vostra vicina di pianerottolo.» Una vicina con
una madre completamente fuori. Come sempre, quando sono nervosa, parlo senza
pensare. Mentre saliamo le scale, spiego loro la storia del meraviglioso
condominio in cui sono venuti ad abitare.
Racconto ai
due nuovi coinquilini i dettagli sul cubo grigio detto “il Tramai”, le loro
facce sono perplesse, decido di tradurre subito in italiano: “la trappola”.
La
situazione nei loro sguardi non migliora, si staranno chiedendo il perché di un
nome così strano, mi sento in dovere di completare la spiegazione.
«Il
condominio si chiama così perché per un tempo era abitato da persone che
avevano spesso a che fare con la legge e il numero di arresti era diventato il
principale motivo di conversazione del paese. Quelli che volevano scappare si
nascondevano in questo condominio perché è in mezzo al nulla, ma non avevano
calcolato che qui nessuno si fa gli affari suoi e questo li ha messi fuori
uso.» Continuo il racconto spiegando loro che dopo il pettegolezzo, seguiva il
passaparola cittadino, e a questo, seguiva l’ispezione dell’autorità
giudiziaria. Fatto sta che i delinquenti
hanno abbandonato l’idea di diventare dei topolini pronti a essere catturati, e
nella trappola ci sono finite altre persone.
Tra queste
persone sono inclusi i miei genitori, tutti abitiamo al Tramai per le stesse
ragioni, la scarsità di denaro e l’affitto molto basso.
La pigione
scontata ha molte motivazioni: la caldaia centralizzata parte quando parte, la
luce delle scale e l’ascensore non funzionano, non c’è nessuna cura del
giardino, i rubinetti spandono sempre e le finestre hanno spifferi che
producono correnti d’aria tipo monsone.
Il padre di
Giorgio non mi sembra impressionato dalle mie parole, la loro indifferenza mi
fa pensare che devono aver visto di peggio.
Siamo sul
pianerottolo, è tempo di saluti.
«Come ti
chiami?» mi chiede l’uomo.
«Amelia ma
preferisco essere chiamata Amy, con la “E” davanti».
«Emy»,
ripeto come se fossero scemi, ma la scema sono io.
«Io sono
Pietro, lui è mio figlio Giorgio, dovete avere circa la stessa età, lui è in
terza media, tu?».
«Anch’io
sono in terza.»
«Sai, non è
facile iniziare in una scuola nuova a gennaio, qual è la tua classe, terza a,
b, c…? Giorgio chissà se sei con Amy?» dice Pietro cercando di metterci
entusiasmo.
«Terza “a”»,
rispondo.
«Anche tu
sei in “a” Giorgio. Bene no? Hai già un’amica in classe», mentre lo dice da una
pacca sulla spalla al figlio che rimane ancora senza una voce.
L’unica cosa
che parla di Giorgio sono i suoi occhi, scuri e pieni di ciglia. Occhi malevoli
e silenziosi.
«Amy, quando
vuoi, vieni pure.» Pietro mi sorride.
«Grazie, è
stato molto gentile, mia madre non sta molto bene, vi chiedo scusa per lo
spettacolo che ha dato prima che “arrivo” io. Ora devo proprio rientrare, papà
vuole la casa pulita quando torna dal lavoro.»
«Italiano da brivido», sussurra Giorgio mentre s’infila nel suo
appartamento.
Anche se ha bisbigliato, le tre parole mi sono arrivate diritte alle
orecchie e mi sento come sempre uno schifo, come a scuola, quando mi
restituiscono i compiti di italiano sempre insufficienti.
Mi è già
antipatico, l’unica cosa che ha detto, pensando di non essere sentito, è stata
una critica. A scuola non lo aiuterò di certo.
Adesso ho
altro cui pensare, tra poco arriva papà.
L’inizio.
Giorgio
Ci siamo
spostati un’altra volta. Come sempre papà ha illuso se stesso, l’ultimo lavoro
come capocantiere si è rivelato un fallimento. Ora deve ripartire da zero, in
questo posto pietoso in mezzo al niente.
L’ennesimo
trasloco, non ne posso più, le sue idee di successo ci portano a spostarci da
un luogo all’altro, a seconda della sua nuova straordinaria impresa di lavoro.
Un’altra
volta in una nuova scuola, in un appartamento squallido, in un paese insulso.
San Mauro al Lemene, sono appena arrivato e so già tutto. Due chiese, una
decina di bar sempre pieni, una coop e tre discount, un ritrovo parrocchiale
con un cinemino, l’ospedale, le scuole e una zona industriale.
Il condominio più brutto del paese è il nostro, lo guardo mentre
parcheggiamo vicino all’entrata, sembra una caserma prossima al crollo. Metto
le gambe fuori dall’auto e mi accorgo che sto iniziando a tremare.
Papà questa
volta non se ne accorge. Si preoccupa sempre della mia salute. Ormai non conto
più tutti i neurologi e gli ospedali che abbiamo frequentato. Hanno detto più
volte a papà che le cause non sono organiche, o almeno così mi sembra di aver
capito. Sarà vero, ma sto da cani. Se papà se ne accorge, mi fa prendere quelle
pilloline che mi hanno prescritto. Sono piccole ma potenti, mi instupidiscono
per ore. Cerco di rimanere calmo e non pronuncio una parola.
Tremo
appena, cerco di non pensarci. Dobbiamo prendere le ultime cose, poi posso
rifugiarmi in casa o quello che è.
Abbiamo ancora
i nostri libri in macchina. I libri sono le sole cose di valore che possediamo.
Mentre ci
avviciniamo al cortile del condominio, davanti a noi compare una scena assurda.
Una donna e un uomo strepitano una serie di insulti nella nostra direzione. Non
ci capisco niente. Papà cerca di non farci caso.
La donna
magra come uno stecco, in vestaglia da notte rosa di nylon, si avvicina a noi
cantando a squarciagola.
Fa
freddissimo, lei è quasi nuda e intona canti al cielo saltellando qua e là. In
un attimo accadono una serie di cose.
Dal
portoncino di ingresso esce come un fulmine una ragazza. Inizia quella che
sembra una lite. Le due iniziano a spingersi.
Io e papà
cerchiamo da sempre di evitare le situazioni incasinate e, ancora una volta,
con un muto segnale, ci dirigiamo verso l’entrata del condominio facendo finta
di nulla.
Arrivati
alla porta, papà si accorge di aver dimenticato le chiavi dell’appartamento in
macchina. Non le ha ancora messe nel portachiavi. Uno dei due deve tornare
indietro, nessuno di noi ne ha voglia, e siccome ci conosciamo bene, ci avviamo
insieme. Siamo in cortile quando udiamo la prima parola: «Aiuto».
Alla seconda
invocazione, intuiamo da dove proviene la richiesta, e scattiamo come molle.
Arrivati in
strada, vediamo la donna urlante sdraiata a terra e la ragazza che cerca di
soccorrerla. C’è tanto sangue. Non mi piace per niente.
Il tremore è lieve, posso farcela a sopportare la scena, ma se
parlo perdo la concentrazione, per tranquillizzarmi cerco di rimanere immobile
e muto.
Ascoltando la conversazione tra le due, abbiamo capito che la
ragazza è la figlia della donna pazza. Si vede che è nel panico quanto me,
cerco di non guardarle per non andare totalmente in tilt. Per fortuna quelli
del pronto soccorso sono arrivati velocemente.
La ragazza
non sale con la madre in ambulanza, rimane lì vicino a noi, come paralizzata.
Papà cerca di farle coraggio come può.
Papà è così, non ce la
fa, le cause perse sono il suo pane quotidiano.
Non la
sopporto, è una zoticona, parla un italiano orrido, è tutta sporca. Spero che
papà non la inviti, non la voglio a casa nostra. Quello che ci racconta sul
condominio m’infastidisce, ma non è una novità. Sono abituato a risiedere in
incantevoli magioni simili a delle stalle.
Sul pianerottolo papà rilancia e cerca di farmela diventare amica. Piuttosto mi appendo con un lenzuolo al
davanzale e rimango sospeso fuori sul muro come l’Uomo Ragno.
Dice di
chiamarla Amy, ma perché usare uno stupido diminutivo inglese se il suo nome è
Amelia? Non è così che si chiama la strega che tormenta Paperone? Osservandola
meglio mi sembra uguale, stessa aria spiritata. I suoi capelli sono simili a
quelli delle streghe, rossi e ricci. Niente fate in questo posto.
All’ultimo
verbo sbagliato, non ne posso più e sottovoce parto in automatico con un
commento sulla sua istruzione. Sono nella sua classe, pensa che livello!
Finalmente
siamo in casa da soli. Papà dopo aver commentato: «Povera ragazzina, mi sembra
così triste. Ma almeno potrebbe avere un
nuovo amico, eh Giorgio? Pensa che combinazione! È nella tua classe, una
fortuna.» Le sue domande non si fermano, anche se non rispondo.
«Dopo questa
scenetta, ci vuole una buona cena per tirarci su il morale, che ne dici?»
Non
proferisco verbo, papà non ci fa caso, è abituato al mio modo di fare; mi
sorride e inizia a cucinare, per lui il cibo è una specie di droga, una
consolazione.
Il racconto
di Amy sulle condizioni del condominio non l’ha depresso come gli accade
frequentemente con le notizie negative, ma l’ha spinto a mettersi ai fornelli.
È la sua via
d’uscita.
La mia sono
i libri.
La camera
dove dormo ha solo un letto e un tavolo, il rimanente è un numero
impressionante di scatoloni. Papà e io abbiamo perso il conto di quanti libri
ci seguono in ogni trasloco. Ora che svuoto
e metto sul pavimento mucchi di testi scolastici, saggi, romanzi, mi
rendo conto dello sforzo del genitore per la mia istruzione.
Ho iniziato, come mio padre, a leggere a tre anni “Il Piccolo
Principe”. Non favole per bambinetti. In prima elementare mi annoiavo da
morire.
Dondolavo sul banco o mi alzavo e mi mettevo alla finestra, se
qualcuno tentava di mettermi a sedere, mi irrigidivo e iniziavo a urlare. Dopo
un po’ di tempo la maestra ha pensato, a un…, come lo chiamava? Ah sì! Un
disturbo del comportamento.
Ora lo chiamerei noia cosmica. Papà preoccupato per i continui avvisi
della scuola mi fece seguire per un periodo da una psicologa.
Disegni su disegni, ore spese a parlare, per stabilire che ero
semplicemente un bambino senza mamma e senza amici, con un padre ansioso.
Un bambino
di sei anni, con sei traslochi alle spalle, uno ogni anno, abbiamo quasi
mantenuto la media.
Siamo
arrivati a quota undici. Se penso che questa è la mia quinta scuola, mi vengono
i brividi. Nuovi compagni, nuovi insegnanti, a metà anno scolastico.
Ho voglia di
seppellirmi qui e di non andarci. Tanto lo so che potrei superare l’esame di
terza media a occhi chiusi.
A scuola non
faccio niente per andare oltre la sufficienza, quando potrei tranquillamente
prendere sempre ottimi voti. Per un periodo sono stato il primo della classe,
tanto che le maestre della scuola numero due, volevano segnalarmi come bambino
con un quoziente intellettivo sopra la norma. Il mio percorso scolastico
sarebbe stato, di conseguenza, meno noioso e più adatto alle mie potenzialità.
Ciò non è accaduto, perché il passaggio alla scuola numero tre, è stato
velocissimo. Nella mia nuova classe c’erano dei ragazzi grandi e grossi a cui
piaceva tanto menare il nuovo intelligentone magrolino.
Per salvarmi
la pelle ho pensato di nascondermi, come i super eroi, in un’altra identità.
Nella scuola
quattro non ero più, “il pungiball su cui fare pratica”, ma quello con la
faccia da duro e voti appena sufficienti.
Papà non ha
capito. È sempre stato molto orgoglioso della mia intelligenza, non capiva
perché, suo figlio così bravo, si fosse trasformato in un bulletto. Non sapeva,
che in realtà, il risultato del mio comportamento traeva ispirazione da una
delle sue passioni: i film con James Dean.
I film
antichi, che mio padre mi propina fin da piccolo, hanno fatto nascere l’eroe.
Quando mi
chiedono come mi chiamo, non sono mai Giorgio, ma Jay. Sono il super eroe Jay.
Nessuno ci prova a prendere in giro Jay, nessuno.
Papà non mi
ha mai chiamato così, anche se gli ho detto che mi deve presentare a tutti come
Jay, si ostina a dire sempre che sono Giorgio.
E in
effetti, anche se faccio finta che non sia così, sono solo questo, lo so bene,
sono solo Giorgio.
Nessun commento:
Posta un commento